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 CENT'ANNI DI SOLITUDINE

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MessaggioTitolo: CENT'ANNI DI SOLITUDINE   CENT'ANNI DI SOLITUDINE 16gd9bkGio Lug 02, 2009 10:37 pm

García Márquez Gabriel - Cent’anni di solitudine



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L’INSONNIA E L’ERRORE DEL TEMPO.

Un villaggio sulla riva del fiume potrà divenire, come nel sogno del padre fondatore, una città rumorosa piena di “cose”, con pareti di specchi. Questo perché, si spiega nel libro, “le cose hanno vita propria, si tratta soltanto di risvegliargli l’anima”.
Non stupisca la scelta di una parola così neutra e asettica come “cose”, perché il mondo nel quale stiamo entrando è un mondo che “sta finendo a poco a poco, e ormai quelle cose non vengono più”. E allora questo libro sarà il canto di una società e di un sistema che sembrano destinati a dissolversi: voce di decadenza, e dunque, necessariamente, memoria della gloria di un tempo. Che se gloria non era, nella sua essenza, era almeno esperienza di pura frontiera e autentica origine di un mondo: mondo derivato dalla poesia, dalla poiesis, in senso stretto, ossia da una creazione. La vita propria di tutte le cose, allora, attraversa il tempo e non si lascia scalfire dalla rovina del tempo: un’intera stirpe, non una famiglia, una stirpe - un genos - quella dei Buendía, vive in questo villaggio disorientato da una pestilenziale insonnia nel tentativo – non velleitario, ma forse paradossale – di risvegliare lo “spirito delle cose”. Perché nelle “cose” si nasconde il segreto della loro storia, e il profetico annuncio del loro futuro: conoscere la propria origine significa, allora, conoscere la propria destinazione. Ma quando questo dovesse avvenire, si avvicina il torpore dell’abisso dell’oblio: non più la negligenza, ma la dimenticanza incondizionata e totale di sé, e della propria esistenza.

Se questo avviene, la storia di una stirpe e del suo villaggio, Macondo, può essere narrata solo da chi, come un presto mitologico Francisco el Hombre, ha battuto il diavolo in una gara di improvvisazione di canzoni, ed il suo vero nome nessuno lo ha conosciuto mai. L’incarnazione sudamericana di una figura, approssimativamente, orfica: specchio del narratore di questo mondo- specchio di Gabriel García Márquez, che si uniforma alla miseria e alla fortuna dei Buendía e del loro villaggio, Macondo, che si trasformerà nella città dalle pareti di specchi.

Ecco descritto un legittimo Buendía: zigomi alti, sguardo di stupore, aria solitaria; temperamento malinconico(autunnale, così dipinge il narratore), vocazione alla ricerca d’una pietra filosofale che si rivela essere il racconto della storia della propria origine. Singolare coincidenza dunque, questa: la storia di una stirpe è la storia delle cose. La storia di una stirpe è la storia di un villaggio – un microcosmo nato nell’indifferenza delle leggi e nell’odio della burocrazia, nell’ambizione sostanzialmente edenica di edificare una società fondata sull’istinto, la solidarietà e l’onore; una pseudo-utopia fondata in un luogo che ha un nome e uno spirito e una mitologia che sondiamo e dominiamo sin dalle prime pagine, ma che tuttavia, una volta risvegliato, si volge ad un riposo eterno.

Insonnia di un’intera cittadinanza: significa iper-vitalità, non significa iper-coscienza – l’insonnia nasce dalla volontà di assumere una coscienza meno imperfetta, dal desiderio di capire, comprendere, e infine – ecco – nominare.
Insonnia e amnesia, in un frangente del romanzo: amnesia che spinge a nominare, nominare, come se tutto fosse nuovo e sconosciuto e necessariamente destinato ad essere osservato, studiato, interiorizzato, definito. Conoscenza intesa come potere: conoscenza che si rivela dolore, nel suo ultimo stadio, in un istante ultimo che ha il colore del sangue e la disarmonia angosciante della sofferenza più atroce- che infine, davvero, è catarsi e liberazione. Pioggia interminabile prima dell’alba confusa nel tramonto: pioggia che non s’atteggia a nessuna pietà, e non s’affida a nessun Dio: che in fondo, a Macondo nessuno aveva bisogno di un Dio, nella stirpe dei Buendía ogni individuo aveva sublimato il peccato originale e viveva della gioia precaria dell’istinto, o dell’adesione naturale all’isolamento della ricerca.
Storia di una famiglia che scolpisce il suo nome nel tempo: e nell’arco di qualche generazione s’accorge d’esser divenuta scheletro della mitologia d’una società sconfortata dalla convivenza con “cose” che non hanno più un’anima da risvegliare.

Chi, solo, custodiva il segreto per risvegliare le cose non aveva il sangue dei Buendía: Melquíades, misterioso zingaro, poté immortalare il loro futuro in un dagherrotipo, perché già conosceva e già aveva vinto la morte: figura di alchimista e innovatore e storico, sguardo distaccato su una realtà che nasce, si sviluppa e un giorno s’addormenta, rinunciando allo sguardo autunnale e all’estasi della materializzazione dei propri sogni. Perché in questa famiglia ci sono donne che vengono assunte nei cieli, perché sono rappresentazione vivente dell’ideale – splendida bellezza, spirito dalle ali di carta – e donne che testimoniano la memoria di generazioni con un sorriso o con il silenzio: donne che allevano generazioni sempre uguali, e confidano nell’inganno d’un talento nuovo per non ammettere che dall’origine nulla è cambiato.

Eterno ritorno di ciò che già era stato: ritorna in vita, prima in carne e quindi come spettro, l’alchimista zingaro; ritornano in vita i pionieri della famiglia, nelle parole, negli sguardi e nelle attitudini dei discendenti; ritornano in vita sogni antichi, memoria genetica incorrotta garantisce alla stirpe di concludersi e pronunciarsi in un ultimo nome. Si infranga e si incenerisca Macondo, adesso: polvere e sangue per la letteratura – degli uomini rifugio e incorruttibile patrimonio, memoria genetica della nostra specie.

Vorrei concludere ricordando un romanzo, “Sarum”, opera prima di Edward Rutherfurd: romanzo che non ha avuto, stranamente, la stessa fortuna del capolavoro dell’artista colombiano. Eppure il principio e lo spirito dei due libri è decisamente simile, e l’ambizione del Rutherfurd probabilmente maggiore, perché l’artista inglese non si limita a narrare la storia di un genos nell’arco di cento anni, ma a descrivere la storia di cinque famiglie nell’arco di diecimila anni, dall’ultima era glaciale fino ai giorni nostri, sullo sfondo dell’antica Sarum, l’odierna Salisbury. Prospettiva sublime sulla memoria dei popoli che han formato l’Occidente, nel racconto delle loro glorie e delle loro miserie, fino alla contemporaneità. Storia di uomini e donne, di morti e di amori, nel canto magnifico della poesia, sì, delle cose.
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MessaggioTitolo: Re: CENT'ANNI DI SOLITUDINE   CENT'ANNI DI SOLITUDINE 16gd9bkVen Lug 03, 2009 10:30 am

l'ho sempre voluto leggere, ma anconra deve venire il SUO tempo!
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